mercoledì 12 agosto 2009

“Ho freddo” di Gianfranco Manfredi



Classificare questo libro di Manfredi con le etichette elaborate per definire i vari generi è difficile e condurrebbe probabilmente a un errore.
L'unica definizione che mi pare calzare è quella che gli ha dato un mio amico a lettura ultimata: è il libro di vampiri che non ti aspetti.
E ciò vale sia per la forma che per il contenuto.
Infatti, se la narrativa contemporanea pare rincorrere la sintesi nel nome del ritmo e della tensione, in questo testo di oltre 500 pagine personaggi e ambienti sono invece minuziosamente descritti e anche i dialoghi grondano spesso di informazioni e riferimenti storici; così che accostare “Ho freddo” al romanzo ottocentesco, almeno per quanto riguarda la sua complessa struttura, non pare un azzardo. La tensione narrativa è spesso penalizzata, ma il risultato finale è quello di restituire una ricostruzione vivida di una certa società americana di fine '700.
E' però il contenuto dell'opera a sorprendere di più. Già sulle pagine del fumetto bonelliano “Magico Vento” di cui è creatore, Manfredi aveva raccontato il West in modo inedito: da episodi storici documentati ha tratto spunti per storie appartenenti ai generi più vari, dal thriller al giallo, passando per l'horror e il mistery. Con “Ho freddo” un procedimento creativo simile si ripete per fondere, nella struttura di un romanzo, una inchiesta storico-giornalistica e una riflessione religiosa e culturale.
Protagonisti della vicenda sono i fratelli gemelli Aline e Valcour, rispettivamente ricercatrice scientifica e medico. Insieme al giovane pastore protestante Jan Vos, si imbattono in alcune epidemie di consunzione che davvero mieterono varie vittime nello stato del Rhode Island. La popolazione, trovandosi a fronteggiare un male all'apparenza imbattibile, non ha dubbi: è il frutto dell'opera del demonio e solo rituali feroci, frutto di credenze superstiziose, possono scacciarlo. E i malati di consunzione che diffondono il morbo finiscono presto per essere considerati vampiri, “ladri” di vita.
Così, i protagonisti non devono combattere solo contro l'infezione, ma anche contro il pregiudizio e l'incultura.
Nelle note finali al volume, Manfredi scrive: “Sono intimamente convinto che il romanzo sia tuttora la forma espressiva più interattiva che esista, e che l'immaginazione di chi scrive, una volta espressa in parole stampate, possa diventare narrazione solo se rielaborata dall'immaginazione di ogni lettore.” In queste parole, non si cela solo una giustificazione alle scelte che hanno caratterizzato la creazione di quest'opera, ma anche una risposta ai tanti che ritengono il medium scrittura superato dalle nuove tecnologie.
Così, dimostrando di credere fortemente nelle potenzialità della narrazione scritta, Manfredi concepisce un testo complesso e di certo più impegnativo dei tanti a tema “Vampiri” che furoreggiano di questi tempi; un testo che non solo avvince, ma informa e induce a porsi diversi interrogativi, tutt'altro che banali.
E forse ci svela anche la vera origine del mito dei vampiri.
Davvero niente male, per un romanzo.

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