martedì 21 gennaio 2014

Ma a cosa serve leggere?

Già, a cosa serve?
E' il caso che qualcuno lo fermi?
Ma iniziamo il discorso proprio come è nato. L'altra sera, nel corso di una discussione, qualcuno ha fatto presente come negli ultimi anni l'identità culturale degli italiani sia andata a farsi benedire, scacciata da modelli e abitudini che non ci appartengono. Insomma, il classico discorso generico riguardo al quale ognuno può avere la propria opinione. Ho commentato questa osservazione tirando in ballo una recente statistica, in base alla quale pochi italiani leggono un libro all'anno. E a mio parere, è facile imporre nuovi modelli culturali in un contesto del genere.
Questo commento ha suscitato subito una replica veemente: ma perché, a cosa serve leggere? Se uno si informa, anche se non legge, cosa cambia?
Ora, devo ammetterlo. Questo tipo di osservazioni, provenienti poi da persone laureate, enunciate con un tono perentorio, ha il potere di spiazzarmi.
Nel senso che mi chiedo come si possa compiere un ciclo di studi durato oltre due decadi e rimanere convinti che leggere non serva a nulla.
Ora, non ho certo l'intenzione di montare in cattedra e dare lezioni. Mi piacerebbe però solo provare a ipotizzare cosa avrei potuto rispondere a quella persona, per tentare di convincerla a riconsiderare la propria posizione nei confronti della lettura.

Stephen King
Quest'uomo sa cosa significa scrivere
Siccome presumo di potermi esimere dal declinare i benefici effetti conseguenti alla lettura di un testo accademico o di un saggio - perché hanno la precipua finalità di insegnare qualcosa e quindi il mio interlocutore non dovrebbe avere nulla da eccepire a riguardo - proviamo a prendere in considerazione il romanzo.
«Che cosa significa scrivere?» si chiede a un certo punto del suo «On Writing» Stephen King. E la risposta che si dà è: «Telepatia, naturalmente».
E infatti penso che si possa dare ragione al Re del Brivido se si pensa alla differenza che può passare tra leggere la sinossi, ad esempio, di 1984 di Orwell (ed essere così informati del tema che affronta) e vivere il disperato percorso seguito dal protagonista mentre cerca la libertà.
Ma forse non ho scelto bene il titolo, perché in fin dei conti si potrebbe sostenere che 1984 è un trattato camuffato da romanzo (e per la verità anche da questo elemento potremmo desumere un'altra potenzialità della narrativa).
Prendiamo allora in considerazione un testo classificabile come di puro intrattenimento: ho da poco terminato «Dieci piccoli indiani» di Agatha Christie. Si tratta certamente di un capolavoro del genere giallo, con un enigma davvero ben congegnato e un'atmosfera di tensione quasi insostenibile. Ma credo si tratti anche di una riflessione sul potere del senso di colpa, anzi sul peso del senso di colpa, e quindi sul nostro bisogno di espiazione.
Agatha Christie
Agatha Christie (Photo credit: 1Wikipedia)
Ma la Christie voleva scrivere un giallo o riflettere sulla natura dell'uomo? La risposta, almeno credo, è che l'autore non può perseguire il primo risultato senza ottenere anche il secondo, perché ogni storia basata sui dilemmi di un essere umano svela anche qualcosa che riguarda tutti noi, inevitabilmente.
Ecco, per me la lettura rappresenta l'occasione di sperimentare una realtà che non è la mia, ma che forse potrebbe anche esserlo, se le condizioni fossero forse solamente di poco diverse. E seguire le scelte di un personaggio significa anche imparare che le mie scelte avranno delle conseguenze, così come è per lui.

Quindi forse la lettura non è in grado di cambiare la realtà, ma di certo ha il potere di contribuire a cambiare il lettore. E non mi pare proprio - posso sbagliare - che la pura informazione possa arrivare a tanto.
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